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Un serpente nel bunker di Rebibbia





Il 12 febbraio è iniziato presso l’aula bunker del carcere di Rebibbia il processo contro alcuni militari latinoamericani che durante gli anni ‘70 hanno partecipato all’Operazione Condor. La maggior parte degli imputati sono già stati processati e condannati in altri paesi, quindi l’udienza è più un risarcimento che una vera ricerca della verità.

Operazione Condor



La somiglianza tra le dittature militari che hanno dominato il Sud America durante gli anni '60 e '70 è atroce. Guidati dal sanguinoso filo conduttore dell'Operazione Condor e grazie alle tecniche d’oppressione più spietate, sono state capaci di annullare qualsiasi dissenso politico o ideologico.  Dare una stima delle persone che sono state giustiziate o torturate sarebbe tanto inesatto quanto terrificante.




È difficile camminare dentro il carcere di Rebibbia e non pensare di essere dentro un fumetto di Zerocalcare. Ma questa mattina, mentre passeggio per questa felice isola tra San Francisco e Pescara, non mi preoccupano nè gli zombie, ne gli armadilli, ma il confine tra la giustizia e la vendetta.


È, anche, molto simile il modo in cui ciascuno dei paesi colpiti ha rivisto i fatti, anni dopo la fine della dittuatura. La lotta delle famiglie delle vittime ha fatto in modo che ogni paese, ognuno a tempo debito, abbia processato e condannato gli autori di tali crimini.
Sicuramente l'icona di questa lotta sono le Madri di Plaza de Mayo argentine. Ma altre madri, senza velo, hanno combattuto instancabilmente per anni in Cile, Perù, Bolivia e Uruguay, per una giustizia che sembrava irraggiungibile. Per fortuna, dopo molti anni, questa giustizia sta arrivando.


Il processo




Quando raggiungo l'imponente carcere romano, il mio pensiero va agli avvocati difensori dei torturatori. Solo uno degli imputati vive in Italia, il che vuol dire che gli altri non saranno presenti alla prima udienza. Deve essere difficile difendere l'innocenza di coloro che hanno commesso tali crudeltà. Ma sicuramente sarà una sfida eccitante anche dal punto di vista giuridico.
Inoltre non posso fare a meno di pensare ai: parenti ed amici delle 23 persone scomparse tra il ‘73 e il ‘78 che avevano la cittadinanza italiana. La maggior parte degli imputati sono già stati processati e condannati in altri paesi, perciò quest’udienza è più un risarcimento che una vera ricerca della verità. In effetti, la validità giuridica è relativa, in quanto si limita a vittime che avevano la cittadinanza italiana. Perciò ho i miei dubbi sul fatto se la sessione sia intesa come una ricerca di giustizia oppure come mera ricerca di vendetta da parte dell'accusa.
In una delle sale adiacenti al bunker vedo una donna con caratteristiche andine, suppongo sia lì per il processo e le domando: “Mi scusi, sa se è già iniziato il processo?” Lei mi guarda e risponde, con  italiano perfetto: “Il processo c’è stato 40 anni fa, ormai lo stiamo solo correggendo.”
Ho capito di più le rughe delle sue mani che le sue parole e mi sono reso conto che, forse, queste persone non cercano nè la giustizia nè la vendetta, ma la libertà.



Scritto per Nodoingola da Juan Cañadas

@JuanCanadas84





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