Un grande atleta, un monaco, un personaggio controcorrente. Per la nostra generazione un mito. Un uomo semplice che batteva gli americani.
In un passato remoto portavo le scarpette chiodate ai piedi. Ero giovane, correvo. Faccio parte di quella generazione di ragazzi cresciuta col mito di Mennea, che correva nelle corsie accanto. Una generazione che si allenava con le tute senza firme, con le scarpe che ai tempi si dicevano: da ginnastica. Che indossava canottiere da gara in simil-laniccio, e calzoncini corti. All'epoca si usavano i calzoncini corti.
E lui, Mennea, era un campione. Un monaco, lo ha definito Berruti, un altro grandissimo della velocità, anche lui campione olimpionico dalle falcate leggiadre. Un campione introverso che si allenava tanto, parlava poco, e studiava. Un fenomeno d'altri tempi: votato al sacrificio e alla bellezza dell'atletica, della corsa, della prestazione da migliorare. Un perfezionista che viveva da solo a Formia e studiava studiava studiava.
Una volta mentre ero a Forma per un ciclo di allenamenti, con altri ragazzi giovani dell'atletica, giocammo a pallone. Nel verde del campo scuola. La mattina allenamento, poi pranzo e partitella. Poi ancora allenamento. Dopo tanti anni ci incontrammo a Bruxelles, lui europarlamentare, io giornalista. Andammo a cena insieme con un comune amico, Pino D'Andrea. Ci facemmo due risate, avevamo tanti amici in comune del tempo delle scarpette chiodate, e perché gli ricordai quella partita, quando si era incavolato con me perché non gli passavo mai la palla. Già, non è che fossi così forte neanche con il pallone, ma neanche lui. Quindi. Eravamo a cena e lui mangiò due sogliole.
Fu divertente. Perché era un secchione, nello sport come nello studio. E anche a Bruxelles. Ma per me era sempre quel ragazzo non tanto alto, magrolino rispetto alle macchine da guerra della velicità, che correva con una leggerezza fantastica. Un misto di classe innata e volontà. Capace di farci sognare con il suo ditino alzato. Con quella polemica sempre accesa. Fino all'ultimo, fino alla sua quinta olimpiade da portabandiera.
Resta la sua storia di giovane del Sud, forte e tenace, che ha sfidato e battuto gli imbattibili dell'Est guidati da Borzov e i grandi velocisti americani. Che ha saputo rifiutare il doping. E che ha fatto sport a livelli altissimi da uomo colto, preparato con quattro lauree, testimonianza che lo sport di alto livello non è solo per fidanzati di veline e muscolosi divi. Era un ragazzo come noi che le suonava a tutti. a. c.
Fonte: globalist
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