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Processo Thyssen, in appello ridotta pena per ad: “Non ci fu dolo”

 

 

 

Nell'impianto, a causa del rogo che si sviluppò il 6 dicembre 2007, morirono 7 operai. In primo grado l’amministratore delegato della Thyssenkrupp, Harald Espenhahn, era stato condannato a 16 anni e mezzo di carcere per omicidio volontario con la formula del dolo eventuale. Il dolore dei familiari: "Maledetti, vergogna".

 Pena ridotta in appello per l’amministratore delegato della Thyssen. Nell’impianto, a causa del rogo che si sviluppò il 6 dicembre 2007, morirono 7 operai. In primo grado il top manager Harald Espenhahn era stato condannato a 16 anni e mezzo di carcere per omicidio volontario con la formula del dolo eventuale mentre gli altri cinque imputati erano stati condannati a pene comprese tra i 10 anni e 10 mesi e i 13 anni e mezzo di reclusione. La pena è stata ridotta perché secondo i giudici di appello non ci fu il dolo. La lettura della sentenza ha sconvolto i familiari presenti in aula.” Vergogna, maledetti, che schifo” il grido dei parenti dei lavoratori uccisi dalle fiamme. Dal pubblico fanno eco: “Questa è la giustizia italiana, che schifo”.

Per i giudici di appello fu omicidio colposo con colpa cosciente. Le pene sono state ridotte anche a tutti gli altri imputati: variano dai 9 ai 7 anni di reclusione. La rideterminazione della pena per Espenhann è dovuta alla derubricazione dell’omicidio volontario: per la Corte si è trattato di omicidio colposo con colpa cosciente. Raffaele Salerno, responsabile dello stabilimento torinese, è stato condannato a 8 anni e mezzo (10 anni e 10 mesi in primo grado, ndr). Gerald Priegnitz, membro del comitato esecutivo dell’azienda e il dirigente Marco Pucci sono stati condannati a 7 anni. Questi ultimi in primo grado erano stati condannati a 13 anni e mezzo. Per il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri i giudici hanno ridotto la condanna a 8 anni; per lui i pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso avevano chiesto di ridurre la pena inflitta in primo grado a 10 anni. Il dirigente Daniele Moroni è stato condannato a 9 anni. 
Il 15 aprile 2011 i giudice della corte d’Assise invece avevano emesso un verdetto storico perché era la prima volta che un Tribunale riconosceva un reato così grave per “incidente” sul lavoro. Oggi invece non è andata così e i parenti hanno quindi deciso di occupare la maxi aula del Palazzo di Giustizi di Torino. ”Non lo accetto – dice una ragazza – mio fratello e altri sei ragazzi sono morti e queste pene sono troppo basse”. Nell’aula, che è ancora molto affollata, sono entrati i carabinieri. Una donna ha lanciato insulti anche contro gli avvocati difensori.
Speravamo nel dolo eventuale. E’stata riconosciuta la colpa cosciente ma noi avevamo posto ai giudici una domanda: quanto vale la vita di un uomo? La risposta è stata 10 anni. Non ne sono mai stati dati tanti – dice il procuratore Raffaele Guariniello -. E’ un messaggio alle imprese: devono fare prevenzione. Altrimenti arrivano condanne che non sono coperte dalla condizionale. Al di là del riconoscimento del dolo resta una sentenza storica: quello che conta è che mai in Italia o nel mondo sono state date pene così alte per degli infortuni sul lavoro. E’ vero – ha aggiunto Guariniello – l’aspetto storico legato al dolo eventuale è venuto meno. Noi comunque porteremo avanti questa tesi. Non è mai stata erogata una pena così alta. E’ un messaggio dato a tutti i giudici e anche ai datori di lavoro. E’ stata riconosciuta la necessità di fare prevenzione – ha concluso – ed è comunque un grande messaggio dato alle imprese“.
Il 6 dicembre l’incidente, il rogo e la strage degli operai. È da poco passata l’una del 6 dicembre 2007, quando, sulla linea 5 dell’acciaieria di corso Regina Margherita, si sviluppa un principio d’incendio. Antonio Schiavone, 36 anni e tre figli, si china per tentare di spegnerlo; improvvisamente cede un tubo, fuoriesce una gran quantità d’olio che provoca un’esplosione. Schiavone muore sul colpo. Dietro di lui sei compagni di lavoro vengono travolti dalle fiamme. L’ottavo componente della squadra, Antonio Boccuzzi, oggi parlamentare del Pd, riesce miracolosamente a scampare. Sei ore dopo l’esplosione muore Roberto Scola, 32 anni e due figli, giunto al reparto grandi ustionati del Cto di Torino pienamente cosciente. Il cuore di Angelo Laurino, 43 anni e due figli, si ferma all’Ospedale San Giovanni Bosco il pomeriggio del 6 dicembre. Bruno Santino muore di sera; aveva 26 anni e della fabbrica non ne poteva più e di lì a poco si sarebbe licenziato per aprire un bar con la fidanzata ventunenne. La Torino postolimpica, d’un tratto, scopre che gli operai esistono ancora. E che muoiono sul lavoro. Il 16 dicembre 2007 la città accompagna in duomo i funerali delle prime quattro vittime, poche ore prima che, in una stanza delle Molinette, finisca la lotta di Rocco Marzo, 54 anni e due figli, il più anziano (sarebbe andato in pensione dopo poche settimane) del gruppo. Tre giorni dopo, il 19 dicembre, muore anche Rosario Rodinò, 26 anni, stessa età di Giuseppe Demasi, che resiste fino al 30 dicembre. Sette morti, una strage mai vista. Il verdetto della Corte d’Assise di Torino era arrivato dopo un processo celebrato a tempo di record, tre anni e cinque mesi dopo quella notte maledetta. Indagini chiuse il 23 febbraio 2008, un primo risarcimento record di 12 milioni e 970 mila euro da parte della ThyssenKrupp alle famiglie delle vittime (giugno) poi l’udienza preliminare e il rinvio a giudizio (novembre), quindi il dibattimento iniziato a gennaio 2009 e conclusosi nell’aprile del 2011 ieri.
Per l’accusa fu una tragedia annunciata causate dalla mancanza di sicurezza. Secondo l’accusa il rogo della ThyssenKrupp fu una “tragedia annunciata”, causata dalla colpevole omissione di adeguate misure di sicurezza all’interno di uno stabilimento in via di dismissione: sistemi di rilevazione incendi assenti, estintori vuoti o malfunzionanti, carenza di manutenzione, sporcizia e, soprattutto, quell’email firmata Harald Espenhahan in cui l’amministratore delegato dichiarava il dirottamento di un investimento di 800 mila euro (sollecitato dalle assicurazioni nel 2006 dopo un analogo incendio nello stabilimento tedesco di Krefeld) “from Turin”, cioè non a Torino, ma a Terni, dove la linea 5 avrebbe dovuto essere smontata e trasferita (nonostante il picco di produzione raggiunto appena due mesi prima della strage). Per i pubblici ministeri Guariniello, Longo e Traverso “from Turin” era la pistola fumante, motivo dell’imputazione di omicidio volontario con dolo eventuale a carico di Espenhahan, che avrebbe coscientemente risparmiato sulla sicurezza accettando il rischio di incidenti anche gravi. Secondo i difensori – tra cui spiccava l’avvocato Franco Coppi, già legale di Giulio Andreotti – l’imputazione di omicidio volontario era “obbrobriosa”, formulata dalla Procura “in modo frettoloso sull’onda dell’emozione”, addirittura un “processo politico” contro “la fabbrica dei tedeschi” (dal titolo del documentario di Mimmo Calopresti). Secondo la difesa l’azienda non trascurò la sicurezza degli operai, cercando in qualche modo – pur dichiarando di volerlo evitare a tutti i costi – di addossare ai lavoratori la responsabilità di quanto accaduto.

Fonte: il fatto quotidiano

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