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Borsellino: 57 giorni di angoscia e l'attesa della fine



Tra la strage di Capaci (23 maggio 1992) e quella di via D'Amelio (19 luglio) passarono solo 57 giorni. Paolo Borsellino li trascorse, nell'attesa cupa di un nuovo segnale di morte, mettendo insieme tracce, ricordi, nuove tessere, spunti investigativi per arrivare alla verita' sull'assassinio del suo amico Giovanni Falcone. Era animato dalla consapevolezza che non gli restasse molto tempo. Da un incontro casuale all'aeroporto con il ministro Salvo Ando' aveva appreso che un pentito aveva annunciato: ''L'esplosivo per Borsellino e' gia' arrivato''. I familiari conservano il ricordo di un uomo sfiancato dal dolore. Il figlio Manfredi dice che in quei giorni era ridotto alla controfigura di ''quell'uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo''. Il sorriso era spento, l'ironia scomparsa. Borsellino era ormai consapevole di essere esposto a gravissimi pericoli.
Il suo principale obiettivo era quello di restituire a Falcone quello che in vita gli era stato negato: il riconoscimento di un impegno professionale e civile nella lotta alla mafia passato attraverso i veleni del palazzo, le ostilita' ambientali, perfino i tradimenti di qualche ''giuda'' che gli aveva frenato la carriera. Anche di questi ''giuda'' Borsellino aveva parlato nell'ultimo intervento pubblico alla biblioteca comunale il 25 giugno 1992. Ma aveva soprattutto descritto in quella occasione la visione che aveva guidato il lavoro di Falcone e del pool: ''La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di liberta' che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguita' e, quindi, della complicita'''. C'e' una data, quella del primo luglio 1992, che ha aperto un caso controverso e clamoroso. Quel giorno Borsellino era a Roma per interrogare il collaboratore Gaspare Mutolo.
Nel pomeriggio aveva sospeso l'interrogatorio per recarsi all'insediamento del ministro dell'Interno, Nicola Mancino. Fu un incontro breve e formale che impedi' a Borsellino di parlare dello stato delle indagini su Capaci. Se ne torno' turbato. Mancino ha sempre sostenuto di non ricordare l'incontro. Il rigore del magistrato era percepito come un ostacolo? Di certo Borsellino aveva intuito che attorno a lui il clima si era fatto pesante. Era tornata l'ombra di un ''giuda'' e di oscuri maneggi. ''Qualcuno mi ha tradito'' aveva confidato a due giovani magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, che lo avevano trovato moralmente provato. ''Sono in un nido di vipere'', aveva confidato. Alla moglie Agnese aveva detto: ''Ho visto la mafia in diretta''. Qualche giorno prima era stato a cena con un gruppo di ufficiali dei carabinieri ma non preciso' in quale occasione aveva avuto quella visione sconvolgente. Alla moglie confido' solo di aver saputo che il capo del Ros, il generale Antonio Subranni, era stato ''punciutu'' nel rito di affiliazione a Cosa nostra. Subranni e' stato indagato dalla procura di Caltanissetta, ma il caso e' stato archiviato. Dalle ultime mosse dei pm di Caltanissetta e' affiorata anche la natura eversiva della strage di via D'Amelio. Agli ultimi quattro arrestati, tra cui il boss Salvino Madonia, e' stata contestata l'aggravante della finalita' terroristica. In quei 57 giorni Cosa nostra avrebbe pensato di condizionare lo Stato con le bombe. Facile pensare che Borsellino deve avere appreso segreti molto ingombranti.

Fonte: ansa

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