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L'Orso d'oro dentro una cella




Omicidio, narcotraffico, associazione a delinquere. I reati compiuti dai protagonisti di Cesare deve morire, fresco Orso d’Oro dei fratelli Taviani, non sono “minori”. La sezione di Alta Sicurezza di Rebibbia
ospita persone che hanno vissuto e commesso talvolta quegli atti violenti raccontati dai classici della letteratura e del teatro. Perché, in fondo, chi ha indagato meglio le pulsioni più oscure dell’uomo di Shakespeare, Genet, o Dante? Cosimo Rega, che interpreta Cassio nella messa in scena del Giulio Cesare
narrata nel film, è un che per la camorra ha ammazzato. È in galera da 34 anni e sconta l’er gastolo.
A marzo uscirà anche il suo libro, Sumino ‘o Falco, autobiografia di un ergastolano. Ma nel frattempo è diventato autore della battuta conclusiva del film, non prevista in sceneggiatura, e che da sola apre un mondo: “Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata una prigione”. Rega, assieme a un’altra trentina di detenuti, l’arte l’ha conosciuta da una decina d’anni, quando ha cominciato a recitare sotto la guida del regista teatrale Fabio Cavalli, prezioso “virgilio” per i Taviani. Che hanno saputo del teatro a Rebibbia perché una loro amica era andata a vedere una rappresentazione dell’Inferno dantesco. E aveva
pianto. E allora loro sono andati a vederli con i loro occhi, quegli uomini che rivivevano il dolore di Paolo e Francesca, del Conte Ugolino, di Ulisse. Due anni fa esatti, i Taviani hanno deciso che con loro volevano girare un film. “Stavamo lavorando ai Sei personaggi in cerca d’a u t o re – dice Fabio Cavalli, anche coordinatore delle tre compagnie teatrali nate del carcere – ma Paolo e Vittorio ci hanno detto che avevano bisogno di qualcosa di differente da Pirandello. Avevano bisogno di S h a ke s p e a re ”. E della sua tragedia più radicale sul potere, la vendetta, il tradimento, il Giulio Cesare, appunto. Prima di arrivare a
girare (le riprese sono durate un mese), i Taviani hanno dovuto conquistare la fiducia dei detenuti, il loro rispetto. I due grandi registi sono stati sottoposti a un esame accurato da parte di Cosimo, Giovanni Arcuri (Giulio Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio) e tutti gli altri. “I detenuti – dice Cavalli – vanno guardati negli occhi e bisogna sempre dire loro la verità. Se sentono che stai mentendo, e che quindi li puoi tradire, non ti riconosceranno come loro pari”. Dopo alcuni incontri con i Taviani, il gruppo ha ratificato: “Chille sono boss”. Che pare una bestemmia. Ma che invece nel linguaggio di chi vive in cella, “significa che quei signori
avevano lo sguardo limpido di chi voleva raccontare senza sotterfugi, di chi non ha paura ed è onesto intellettualmente”. Chi ha fatto 30 anni di carcere e ha la prospettiva di non uscire, come può essere interessato alla menzogna? E l’arte è per loro una nuova forma di verità: con il teatro molti di loro hanno capito che c’erano altre possibilità di vita. Con un effetto liberatorio, più che frustrante. “Certo spiega Cavalli  i detenuti comprendonoanche quanto hanno perso di loro stessi, ma sentono anche che hanno ancora tempo”. Arcuri si sta laureando in Giurisprudenza, Rega ha scelto Lettere, un altro ha fatto una tesi
su Giordano Bruno, per la sua laurea in Filosofia. Quasi tutti studiano. “E tutti – dice Cavalli – sono attori diplomati”. Bruto, ovvero Salvatore Striano, ora l’attore lo fa di professione. Scugnizzo dei clan, Striano è uscito grazie all’indulto del 2006 e da allora ha lavorato con Orsini a teatro, Garrone al cinema (Gomorra) e sta girando una serie televisiva sulla mala napoletana. All’inizio del film, tutti gli attori si presentano. Potevano scegliere se usare generalità fittizie, ma non lo hanno fatto. “Dario Bonetti – dice Cavalli – quarantenne italo-argentino ed ex uomo del narcotraffico, ha pensato poi maledetto a me: e se mi riconoscono in Sud America?” . Ma alla fine anche lui ha guardato la verità in faccia. Alla notizia della vittoria a Berlino, qualcuno ha pianto. Tutti non vedono l'ora che i Taviani li vadano a trovare con l'Orso d'Oro. Anche durante le riprese ci sono stati momenti di commozione. “Uno degli attori mi ha ringraziato perchè era vent’anni che non vedeva il tramonto – dice Cavalli – ma anche durante la messa in scena degli spettacoli ho assistito a momenti forti: la disperazione per aver ricevuto la notifica di un ergastolo, le grida di gioia di un carcerato che aveva saputo che sarebbe stato liberato. È importante evitare di fare prove in giorni emotivamente
importanti, come quelli dei colloqui con i familiari. Se litighi con tua moglie o tuo figlio, recitare è impossibile. In carcere tutte le emozioni sono estreme. Per il resto, sono dei veri professionisti. Quando abbiamo scelto il
cast per il film, nessuno ha protestato per aver le parti principali: come i veri attori, sanno cosa possono interpretare e cosa no. I detenuti cercano verità e giustizia. Cercano di comprendere loro stessi con l’arte e di conoscere il verdetto di quello che ora è il loro giudice naturale: il pubblico”. Ma la capacità terapeutica
 della recitazione non può togliere il desiderio più forte. “Che resta uno solo – conclude il regista Tornare liberi”.

Fonte: il fatto quotidiano

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