C’è il reparto. E c’è il resto del mondo, fuori, che non può capire. Ci sono 70 uomini con le mostrine offese dagli sputi, il fazzoletto rosso al collo e il manganello al petto. Anfibi e scudi contro pietre. Occhi fuori dalle orbite. Sudore e cinghie. Soprusi. Allo stadio, al G8 di Genova o durante uno sfratto. Non fa differenza
perché i celerini sono “f ra t e l l i ”, lo Stato non esiste e spaccare due teste in servizio fa parte di uno sporco mestiere che qualcuno deve pur fare. “Oggi battesimo del fuoco, Adrià” ridono. “Prima carica
e hai subito aperto du’ capocce a du’ o p e ra i ”. Sangue, sirene, coltelli, pestaggi, ordini di servizio da eseguire a modo proprio eliminando per sempre le atmosfere di Gadda o di Maigret. In Acab di Stefano Sollima (Rai Cinema, in sala da venerdì con 300 copie) niente più pipe, riflessioni o distinzioni pelose tra poliziotti buoni o poliziotti cattivi. Sono tutti bastardi, come da titolo, perché l’Italia è una giungla e si è esaurito il lusso della comprensione. Sul terreno solo barriere da abbattere uccidendo le regole. Bestie
contro altre bestie. Maschere contro travestimenti. Fumogeni contro “lame”, infami, “feccia extracomunitaria”. Ai piani alti non piacerà. I sindacati di categoria (i primi echi già assordanti) protesteranno
parlando di “scandalo” e “realtà distorta”. Sollima colora, esagera, ma non mente. E spaventa. Qui, con la
prospettiva rovesciata e le banlieue nel cuore dello Stato, siamo dalle parti dell’odio di Kassovitz o valutando generosamente (l’estetica diverge) nel territorio dei Volonté sadici di Petri. Se si supera il fastidio,
l’immedesimazione, il riflesso condizionato di assecondare “anche solo per un secondo” come argomenta il giornalista di Repubblica Carlo Bonini, autore del libro a cui Sollima si è liberamente ispirato, le nefandezze
dei macellai in divisa, si intuisce la frattura (l’abisso) tra Acab e la tanta pubblicistica sulle forze dell’ordine in stile “Maresciallo Rocca” capace di assediare in questi anni piccoli e grandi schermi. Qui non c’è consolazione né redenzione. È la polaroid di un Paese disperato in cui chi vigila, non delinque meno dei criminali. Una deriva senza approdi. Efficace, cruda e crudele. Una legge del taglione che si appiglia a decine di giustificazioni pseudosociologiche senza afferrarne nessuna. Pierfrancesco Favino, Marco Giallini e
Filippo Nigro (bravi, come Sartoretti e Mastandrea) sono tre pedine del reparto mobile. Hanno soprannomi e comportamenti in bilico tra il fumetto (Cobra, Negro e Mazinga) e la Banda della Magliana. Agenti che compiaciuti canticchiano strofe imitando gli insulti ricevuti: “Celerino/figlio di puttana”. Soldati di trincea pronti ai regolamenti di conti. Xenofobie. Birre. Iniziazioni brutali.“A testa de cazzo, lui non è il comandante, è un parente”. Busti del Duce a casa tra spade giapponesi, samurai e nazimaoismi di ritorno: “D o bb i a m o
tornà padroni a casa nostra, l’Italia agli italiani”. Sono fascisti e qualunquisti. Sono servitori, ma non servono neanche a loro stessi. Picchiano, ma i loro colpi non hanno una direzione. Sono sempre in gruppo, ma appaiono solissimi. Saranno traditi dalla recluta che volevano plasmare a loro immagine e somiglianza, ma archiviati processi, richiami e burocrazia ricominceranno. Non dubitano e non si preoccupano. Gli altri non li comprendono e loro non desiderano farsi leggere dentro. Stranieri in patria. Disprezzando i politici, i superiori e i colleghi di guardia a Montecitorio: “Schifoso, attento che te se sgualcisce la giacchetta”. Disgustati dalle vacue promesse della classe dirigente (il film si svolge in piena campagna elettorale per il comune di Roma e Alemanno, per così dire, fa una pessima figura) dagli invasori (romeni, albanesi, moldavi)
e in fondo anche dagli autoctoni. Sono extraterritoriali. Predicano e applicano una loro legge in una guerra
tra poveri senza vincitori né vinti. Introiettano il disprezzo della gente (“Vedo che la popolarità del reparto aumenta sensibimente” dice la moglie del comandante alla vista della tenuta ricoperta per l’ennesima volta da pomodori e saliva) e se ne fottono. Vedono la loro vita privata frantumarsi e accumulano violenza da scagliare assieme ai pezzi dell’esistenza ai figli, ai matrimoni e a quello in cui credevano, in un corpo a corpo quotidiano. Fuori c’è una fogna da ripulire. Stupri, angherie, periferie degradate. Loro sono l’avamposto. Loro è la “missione”. Tutta al maschile perché le donne, anche quando hanno un distintivo, sono fuori
dal cerchio. Meglio spaccare uno specchio a mani nude che confidarsi con chi hai accanto da vent’anni. Negro, il poliziotto, ha sposato una ragazza cubana. Hanno una figlia. Si separano. Lui la prende a cazzotti,
i colleghi mediano. “Nun lo puoi denuncià”. Mentre lei riflette, Favino, in uno squallido tinello illuminato dal
neon la spiega così: “Vai in vacanza e te la racconti. Tu sei ricco, lei ti ama. Poi torni e i tuoi duemila euro al mese non si moltiplicano. Tu rimani un celerino de ‘mmerda e lei una zoccola”. Intorno (aspettando Diaz di Daniele Vicari, a Berlino) mentre ballano macabri il G8 “La più grande cazzata della vita nostra” l’omicidio di Gabriele Sandri, la morte di Filippo Raciti a Catania e il conseguente assalto alle caserme, nulla si risolve e niente migliora. Su un murales, all’ingresso del reparto che fu di Vincenzo Canterini, l’immagine di un assalto
della Celere. “Lo spirito che lega una squadra dopo una vittoria sarà sempre inscindibile”. Fuori, nel silenzio,
continuano a perdere tutti.
Fonte: il fatto quotidiano
perché i celerini sono “f ra t e l l i ”, lo Stato non esiste e spaccare due teste in servizio fa parte di uno sporco mestiere che qualcuno deve pur fare. “Oggi battesimo del fuoco, Adrià” ridono. “Prima carica
e hai subito aperto du’ capocce a du’ o p e ra i ”. Sangue, sirene, coltelli, pestaggi, ordini di servizio da eseguire a modo proprio eliminando per sempre le atmosfere di Gadda o di Maigret. In Acab di Stefano Sollima (Rai Cinema, in sala da venerdì con 300 copie) niente più pipe, riflessioni o distinzioni pelose tra poliziotti buoni o poliziotti cattivi. Sono tutti bastardi, come da titolo, perché l’Italia è una giungla e si è esaurito il lusso della comprensione. Sul terreno solo barriere da abbattere uccidendo le regole. Bestie
contro altre bestie. Maschere contro travestimenti. Fumogeni contro “lame”, infami, “feccia extracomunitaria”. Ai piani alti non piacerà. I sindacati di categoria (i primi echi già assordanti) protesteranno
parlando di “scandalo” e “realtà distorta”. Sollima colora, esagera, ma non mente. E spaventa. Qui, con la
prospettiva rovesciata e le banlieue nel cuore dello Stato, siamo dalle parti dell’odio di Kassovitz o valutando generosamente (l’estetica diverge) nel territorio dei Volonté sadici di Petri. Se si supera il fastidio,
l’immedesimazione, il riflesso condizionato di assecondare “anche solo per un secondo” come argomenta il giornalista di Repubblica Carlo Bonini, autore del libro a cui Sollima si è liberamente ispirato, le nefandezze
dei macellai in divisa, si intuisce la frattura (l’abisso) tra Acab e la tanta pubblicistica sulle forze dell’ordine in stile “Maresciallo Rocca” capace di assediare in questi anni piccoli e grandi schermi. Qui non c’è consolazione né redenzione. È la polaroid di un Paese disperato in cui chi vigila, non delinque meno dei criminali. Una deriva senza approdi. Efficace, cruda e crudele. Una legge del taglione che si appiglia a decine di giustificazioni pseudosociologiche senza afferrarne nessuna. Pierfrancesco Favino, Marco Giallini e
Filippo Nigro (bravi, come Sartoretti e Mastandrea) sono tre pedine del reparto mobile. Hanno soprannomi e comportamenti in bilico tra il fumetto (Cobra, Negro e Mazinga) e la Banda della Magliana. Agenti che compiaciuti canticchiano strofe imitando gli insulti ricevuti: “Celerino/figlio di puttana”. Soldati di trincea pronti ai regolamenti di conti. Xenofobie. Birre. Iniziazioni brutali.“A testa de cazzo, lui non è il comandante, è un parente”. Busti del Duce a casa tra spade giapponesi, samurai e nazimaoismi di ritorno: “D o bb i a m o
tornà padroni a casa nostra, l’Italia agli italiani”. Sono fascisti e qualunquisti. Sono servitori, ma non servono neanche a loro stessi. Picchiano, ma i loro colpi non hanno una direzione. Sono sempre in gruppo, ma appaiono solissimi. Saranno traditi dalla recluta che volevano plasmare a loro immagine e somiglianza, ma archiviati processi, richiami e burocrazia ricominceranno. Non dubitano e non si preoccupano. Gli altri non li comprendono e loro non desiderano farsi leggere dentro. Stranieri in patria. Disprezzando i politici, i superiori e i colleghi di guardia a Montecitorio: “Schifoso, attento che te se sgualcisce la giacchetta”. Disgustati dalle vacue promesse della classe dirigente (il film si svolge in piena campagna elettorale per il comune di Roma e Alemanno, per così dire, fa una pessima figura) dagli invasori (romeni, albanesi, moldavi)
e in fondo anche dagli autoctoni. Sono extraterritoriali. Predicano e applicano una loro legge in una guerra
tra poveri senza vincitori né vinti. Introiettano il disprezzo della gente (“Vedo che la popolarità del reparto aumenta sensibimente” dice la moglie del comandante alla vista della tenuta ricoperta per l’ennesima volta da pomodori e saliva) e se ne fottono. Vedono la loro vita privata frantumarsi e accumulano violenza da scagliare assieme ai pezzi dell’esistenza ai figli, ai matrimoni e a quello in cui credevano, in un corpo a corpo quotidiano. Fuori c’è una fogna da ripulire. Stupri, angherie, periferie degradate. Loro sono l’avamposto. Loro è la “missione”. Tutta al maschile perché le donne, anche quando hanno un distintivo, sono fuori
dal cerchio. Meglio spaccare uno specchio a mani nude che confidarsi con chi hai accanto da vent’anni. Negro, il poliziotto, ha sposato una ragazza cubana. Hanno una figlia. Si separano. Lui la prende a cazzotti,
i colleghi mediano. “Nun lo puoi denuncià”. Mentre lei riflette, Favino, in uno squallido tinello illuminato dal
neon la spiega così: “Vai in vacanza e te la racconti. Tu sei ricco, lei ti ama. Poi torni e i tuoi duemila euro al mese non si moltiplicano. Tu rimani un celerino de ‘mmerda e lei una zoccola”. Intorno (aspettando Diaz di Daniele Vicari, a Berlino) mentre ballano macabri il G8 “La più grande cazzata della vita nostra” l’omicidio di Gabriele Sandri, la morte di Filippo Raciti a Catania e il conseguente assalto alle caserme, nulla si risolve e niente migliora. Su un murales, all’ingresso del reparto che fu di Vincenzo Canterini, l’immagine di un assalto
della Celere. “Lo spirito che lega una squadra dopo una vittoria sarà sempre inscindibile”. Fuori, nel silenzio,
continuano a perdere tutti.
Fonte: il fatto quotidiano
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