Non contro la disoccupazione. Non contro l’evasione fiscale. Non contro la corruzione. L’unica vera guerra
combattuta dal governo negli ultimi anni è stata quella contro la magistratura. In essa ha finito per trovarsi
come bersaglio fisso unicamente a causa del suo rigore un collega che stimo e ho potuto apprezzare “sul
campo”. Si tratta di Antonio Ingroia, contro il quale del tutto pretestuosamente sono state persino scagliate
accuse di “c o s p i razione politico giudiziaria” e “calunnia di stato”, assieme alla assurda, ma screditante
richiesta, di “tirar fuori l’art. 289 del codice penale” (attentato a organi costituzionali!) con il simpatico
corollario di una decina d’anni di galera come possibile conseguenza. Stante questo scenario, confesso che mi ha colpito la notizia di ieri che la competente commissione del Csm ha proposto (dovrà poi decidere il plenum) di qualificare come inopportuno un intervento sui temi della giustizia svolto da Ingroia in occasione del congresso di un partito politico nel quale il magistrato si definì “partigiano della Costituzione”. Inopportuno, ma non sanzionabile e perciò da archiviare, sia pure non del tutto: essendo stato richiesto
l’invio degli atti ad altra commissione, quella che si occupa delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati. Meritano riflessione innanzitutto le tesi (ancorché diffuse a rullo) che la partecipazione del magistrato alla vita politico-culturale lo rende “sospetto” a chi non ne condivide le idee e che anche l’apparenza può nuocere all’immagine di imparzialità. Tesi suggestive, ma attenzione: più che la sede in cui si parla importa quel che si dice. E il dibattito sulla giustizia non può che essere a tutto campo. Perciò deve avere come interlocutori i cittadini di ogni opinione, compresi ovviamente quelli dell’area progressista (riferimento “n a t u ra l e ” per i magistrati che si richiamano – come il sottoscritto e Ingroia – alle opzioni culturali di “Ma gistratura democratica”). È vero, Ingroia si è definito “partigiano della Costituzione”, ma dopo aver premesso l’obbligo di assoluta imparzialità nell’esercizio quotidiano delle proprie funzioni. Allora “par tigiano” (per quanto dialetticamente impressiva possa sembrare la parola) significa semplicemente
ribadire quella grande novità della Costituzione democratica – cui i magistrati prestano solenne giuramento
di fedeltà – che impone ai giudici della Repubblica di essere “soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.). Quindi mai partigiani del “palazzo” e dei suoi esponenti, delle contingenti maggioranze, dei movimenti politici, dei potentati economici o culturali e via seguitando. Partigiani di nessuno: salvo che della legge, a partire appunto da quella costituzionale. Il fatto è che non sono le idee né la loro espressione a ridurre l’imparzialità del magistrato, ma casomai le “appar tenenze” (in particolare quelle occulte) e le interessate frequentazioni
delle stanze del potere, specie se intrecciate con disinvolti “parer i” generosamente dispensati. Spesso anzi
sono proprio la presunta “apoliticità” e l'indifferenza a mimetizzare fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. Passione civile e imparzialità nel giudizio non sono concetti incompatibili. L'imparzialità è estraneità agli interessi in conflitto e distacco dalle parti: non anche indifferenza alle idee e
ai valori (pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono ad essa i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti
personali e di gruppo: non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale, partecipazione che
con la “professionalità ”, a mio avviso, non c’e n t ra proprio per niente, ben altri essendo i parametri di giudizio al riguardo (parametri, sia detto per inciso, che certamente Ingroia non teme). Dopo anni di “assalto alla giustizia” sembrano talora emergere, nella magistratura, segnali di inquietudine e insofferenza che possono portare ad “avvitamenti ” burocratici e formalistici. È la spia di una crisi che induce molti a rifugiarsi in un isolamento corporativo, consolatorio, ma controproducente per gli interessi della società. Contro queste tendenze il Csm dovrebbe reagire arginandole. Proprio per questi motivi mi auguro che il “plenum ” sappia inquadrare nella giusta prospettiva la vicenda di Antonio Ingroia.
combattuta dal governo negli ultimi anni è stata quella contro la magistratura. In essa ha finito per trovarsi
come bersaglio fisso unicamente a causa del suo rigore un collega che stimo e ho potuto apprezzare “sul
campo”. Si tratta di Antonio Ingroia, contro il quale del tutto pretestuosamente sono state persino scagliate
accuse di “c o s p i razione politico giudiziaria” e “calunnia di stato”, assieme alla assurda, ma screditante
richiesta, di “tirar fuori l’art. 289 del codice penale” (attentato a organi costituzionali!) con il simpatico
corollario di una decina d’anni di galera come possibile conseguenza. Stante questo scenario, confesso che mi ha colpito la notizia di ieri che la competente commissione del Csm ha proposto (dovrà poi decidere il plenum) di qualificare come inopportuno un intervento sui temi della giustizia svolto da Ingroia in occasione del congresso di un partito politico nel quale il magistrato si definì “partigiano della Costituzione”. Inopportuno, ma non sanzionabile e perciò da archiviare, sia pure non del tutto: essendo stato richiesto
l’invio degli atti ad altra commissione, quella che si occupa delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati. Meritano riflessione innanzitutto le tesi (ancorché diffuse a rullo) che la partecipazione del magistrato alla vita politico-culturale lo rende “sospetto” a chi non ne condivide le idee e che anche l’apparenza può nuocere all’immagine di imparzialità. Tesi suggestive, ma attenzione: più che la sede in cui si parla importa quel che si dice. E il dibattito sulla giustizia non può che essere a tutto campo. Perciò deve avere come interlocutori i cittadini di ogni opinione, compresi ovviamente quelli dell’area progressista (riferimento “n a t u ra l e ” per i magistrati che si richiamano – come il sottoscritto e Ingroia – alle opzioni culturali di “Ma gistratura democratica”). È vero, Ingroia si è definito “partigiano della Costituzione”, ma dopo aver premesso l’obbligo di assoluta imparzialità nell’esercizio quotidiano delle proprie funzioni. Allora “par tigiano” (per quanto dialetticamente impressiva possa sembrare la parola) significa semplicemente
ribadire quella grande novità della Costituzione democratica – cui i magistrati prestano solenne giuramento
di fedeltà – che impone ai giudici della Repubblica di essere “soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.). Quindi mai partigiani del “palazzo” e dei suoi esponenti, delle contingenti maggioranze, dei movimenti politici, dei potentati economici o culturali e via seguitando. Partigiani di nessuno: salvo che della legge, a partire appunto da quella costituzionale. Il fatto è che non sono le idee né la loro espressione a ridurre l’imparzialità del magistrato, ma casomai le “appar tenenze” (in particolare quelle occulte) e le interessate frequentazioni
delle stanze del potere, specie se intrecciate con disinvolti “parer i” generosamente dispensati. Spesso anzi
sono proprio la presunta “apoliticità” e l'indifferenza a mimetizzare fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. Passione civile e imparzialità nel giudizio non sono concetti incompatibili. L'imparzialità è estraneità agli interessi in conflitto e distacco dalle parti: non anche indifferenza alle idee e
ai valori (pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono ad essa i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti
personali e di gruppo: non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale, partecipazione che
con la “professionalità ”, a mio avviso, non c’e n t ra proprio per niente, ben altri essendo i parametri di giudizio al riguardo (parametri, sia detto per inciso, che certamente Ingroia non teme). Dopo anni di “assalto alla giustizia” sembrano talora emergere, nella magistratura, segnali di inquietudine e insofferenza che possono portare ad “avvitamenti ” burocratici e formalistici. È la spia di una crisi che induce molti a rifugiarsi in un isolamento corporativo, consolatorio, ma controproducente per gli interessi della società. Contro queste tendenze il Csm dovrebbe reagire arginandole. Proprio per questi motivi mi auguro che il “plenum ” sappia inquadrare nella giusta prospettiva la vicenda di Antonio Ingroia.
Gian Carlo Caselli
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