Quello avvenuto
in Cambogia è senz’altro uno dei genocidi meno noti in Occidente;
secondo Marcello Flores, professore di Storia Comparata presso
la facoltà di Lettere dell’Università di Siena, questa “ignoranza”
è causata da diversi fattori: i khmer rossi furono i primi a
tentare di nascondere le enormi scelleratezze da loro compiute;
la disattenzione dei media verso aree
del mondo considerate periferiche, dove l’Occidente non era
direttamente coinvolto; il contesto della Guerra Fredda, che
in quegli anni vedeva ancora opporsi Stati Uniti e URSS; il
colpevole e vergognoso silenzio di una parte della sinistra
internazionale, la prima a criticare la guerra statunitense
nel Vietnam ma a tacere i crimini commessi dai vari regimi comunisti.
Il 17 Aprile 1975
i Khmer Rossi guidati da Pol Pot (nome assunto dal 1976; nome
originario: Saloth Sar) prendono possesso della capitale, Phnom
Penh, mettendo fine alla precedente “Repubblica dei Khmer” capeggiata
dal generale Lon Nol (il quale, a sua volta, aveva rovesciato
la monarchia di Re Sihanouk nel 1970). Prende subito piede l’ala più estremista del movimento, che intende instaurare
un egualitarismo rurale attraverso lo spopolamento di tutte
le città e la deportazione in “campi di rieducazione” e prigioni
terrificanti dove eliminare il “nemico”. Si calcola che dal
17 Aprile 1975 al dicembre 1978 (quando avviene l’invasione
da parte del Vietnam che costringe i khmer rossi alla fuga nelle
montagne), siano stati sterminati circa due milioni di cambogiani
che, contando che la popolazione totale si aggirava intorno
ai 7,7 milioni, costituisce circa il 25% del popolo. Vittime
prime del massacro furono le minoranze vietnamita, cinese e musulmana cham. Inoltre,
chiunque avesse una laurea, parlasse
qualche lingua straniera, o esercitasse una libera professione
(medico, avvocato…quindi “borghese”) doveva essere eliminato.
Il “nemico”, tuttavia, finì per essere l’intero popolo stesso:
i detenuti nelle spaventose prigioni venivano
torturati continuamente fino allo svenimento in modo da ottenere
i nomi dei presunti traditori – ogni persona denunciava una
sessantina di nomi, conoscenti, ex vicini di casa…chiunque,
pur di non essere più torturato; e ciascuno di questi sessanta
ne denunciava altri. Le confessioni estorte ai prigionieri erano
quasi sempre invenzioni fatte per soddisfare i vertici del partito.
Alle guardie (che spesso erano bambini o ragazzini indottrinati)
veniva detto che il partito non sbagliava mai nell’arrestare
un nemico e se il traditore era un padre, tutta la sua famiglia
andava arrestata con lui.
La prigione più
famigerata fu senza dubbio quella di Tuol Sleng, un ex ginnasio
francese dell’epoca coloniale. Il nome che gli fu dato dai khmer
rossi è “S-21”, cioè “ufficio
21”.
Oggi, è stato trasformato nel Museo del Genocidio. Qui,
centinaia di migliaia di persone trovarono la morte. Pochissimi
sopravvissero, e tuttora portano le cicatrici fisiche e psicologiche
di questa terribile esperienza. Il documentario shock “S21 –
La macchina di morte dei khmer rossi” di Rithy Panh porta lo
spettatore nella prigione insieme a pochi sopravvissuti, tra
cui una vittima, un sorvegliante, un torturatore e l’addetto
ai registri. In alcune scene, viene
chiesto a queste persone di ripetere i gesti che facevano venticinque
anni fa: questa, come l’ha chiamata il regista, è la “memoria
del corpo”, quella più precisa, dettagliata, vera. Chi lavorava
alla prigione doveva imparare una serie di gesti a memoria,
sempre uguale, altrimenti il prigioniero avrebbe potuto fuggire,
suicidarsi…oppure la coscienza avrebbe potuto risvegliarsi –
e capire che quei gesti erano sbagliati. Ma questo era l’indottrinamento:
ascolta, impara, memorizza, ripeti. All’infinito. E così la
macchina funziona.
Molti degli assassini
si rifiutano di credersi tali, dicono che per anni hanno soltanto
eseguito degli ordini, e che se non l’avessero fatto sarebbero
stati uccisi esattamente come gli altri. Come puoi accettare,
in effetti, di aver ammazzato migliaia di persone, probabilmente
in una giovane età? Periodicamente, alcuni prigionieri venivano portati in un’area non lontana dalla prigione: veniva
loro data una forte bastonata di testa, tagliata la gola, tolti
i vestiti per essere riutilizzati (ma solo se non erano macchiati
di sangue); i cadaveri venivano poi gettati in fosse comuni
che emanavano un odore nauseabondo di morte.
Il museo, oggi, mostra ogni cella esattamente come era stata
trovata, e con la foto della persona che lì fu torturata. Ci
sono fotografie degli strumenti di tortura utilizzati e di persone
che ne furono uccise; la prima forma di tortura da utilizzare
era quella della “pressione politica”; quando
questa non funzionava, si passava alla tortura fisica, anche
questa divisa in fasi. In realtà, è ben chiaro che la tortura
fisica veniva usata in ogni caso, ad
intensità diverse.
La crudeltà applicata al popolo cambogiano sembra essere senza senso: non fu soltanto un gruppo etnico, politico, religioso, culturale, ad essere sterminato (anche se le minoranze citate furono quelle attaccate per prime): la vittima fu l’intera popolazione. Per la maggior parte, innocente.
I khmer rossi furono dichiarati fuori legge nel 1994; tuttavia, ancora si fa attendere la realizzazione di un tribunale internazionale per portare giustizia e condannare i perpetratori degli omicidi: mancano i fondi necessari, manca stabilità politica.
L’importante, come ben sottolinea Flores, è che non si dimentichi: che anche le nuove generazioni nate fortunatamente dopo il genocidio, sappiano; che nulla venga dimenticato o insabbiato.
La crudeltà applicata al popolo cambogiano sembra essere senza senso: non fu soltanto un gruppo etnico, politico, religioso, culturale, ad essere sterminato (anche se le minoranze citate furono quelle attaccate per prime): la vittima fu l’intera popolazione. Per la maggior parte, innocente.
I khmer rossi furono dichiarati fuori legge nel 1994; tuttavia, ancora si fa attendere la realizzazione di un tribunale internazionale per portare giustizia e condannare i perpetratori degli omicidi: mancano i fondi necessari, manca stabilità politica.
L’importante, come ben sottolinea Flores, è che non si dimentichi: che anche le nuove generazioni nate fortunatamente dopo il genocidio, sappiano; che nulla venga dimenticato o insabbiato.
Fonti:
“S21. La macchina
di morte dei khmer rossi” film di Rithy Panh; “Cambogia, dentro
lo sterminio”, a cura di Benedetta Tobagi, Feltrinelli Real
Cinema, 2007.
“Notes from my travels. Visits with refugees in Africa, Cambodia, Pakistan and Ecuador”, Angelina Jolie, Poket Books, 2003
Di seguito il documentario:
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