Papà, da grande voglio fare il carabiniere. E allora io pregai il capitano di regalarmi il suo cappello e lo diedi al bambino”. Quando Pasquale Galasso, numero due della Nuova Famiglia – il network di clan della Camorra che negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso si opponeva allo strapotere di Raffaele Cutolo –
raccontò questo episodio, i parlamentari della Commissione antimafia raggelarono. Galasso era stato un boss importante della Camorra, aveva ucciso e ordinato omicidi, aveva estorto soldi agli imprenditori,
la sua organizzazione aveva trafficato in droga, poi si era pentito per salvare la famiglia, quella di sangue.
Ora vive in una località segreta, ha cambiato generalità, ha un lavoro ed è riuscito nell’impresa di strappare i figli alla morte o al carcere. Così non è stato per il suo capo, Carmine Alfieri, al quale ammazzarono
il figlio Antonio nel 2002. Così non è stato per il suo nemico giurato, Raffaele Cutolo. Il boss della Nuova
camorra organizzata aveva un solo figlio, Roberto (“il figlio della sfortuna”, lo chiamava) che cercò di seguire le orme paterne. Voleva fare il boss pure lui, avere un suo clan e riproporre le stesse logiche di dominio della Camorra anche nel Nord Italia. Lo uccisero la sera del 19 dicembre 1990 davanti a un bar di Abbiate Guazzone, nei pressi di Tradate. Don Rafele, o’p r u fe s s ò re , il primo violino della Camorra, come ancora oggi che deve scontare svariati ergastoli e sempre in regime di carcere duro chiamano Cutolo, non si rassegnò all’idea che il suo sangue finisse per sempre con la morte dell’unico erede. Nel 2007 ottenne l’autorizzazione dal ministero della Giustizia a ricorrere alla fecondazione artificiale per avere un altro figlio. Immacolata Iacone, la donna che aveva sposato in carcere nel lontanissimo 1982, mise al mondo Denise. “Quando sarà grande – disse la mamma ai giornalisti – forse sentirà pronunciare la parola Camorra, qualcuno le racconterà delle cose. Saprà chi è suo padre, conoscerà il suo passato, ma Raffaele è mio marito, l’uomo che amo”. Era mio padre, la storia raccontata nel film di Sam Mendes, con un impareggiabile
Tom Hanks, la ritrovi nelle storie di fratelli, mogli, soprattutto figli di boss. Francesco Paolo Provenzano è il figlio più piccolo di Binnu, il capo di Cosa Nostra. Cinque anni fa, fece scalpore la notizia di una borsa di studio concessa al giovane Francesco per la promozione della cultura italiana in Germania dal ministero dell’Istruzione. Francesco aveva un curriculum di tutto rispetto e si piazzò al 36° posto su 308 candidati, nel 2008, insieme al fratello maggiore Angelo, studente universitario, rilasciò una lunga intervista a Francesco Lalicata de La Stampa. “Ma come si fa soltanto a pensare una cosa del genere (rinnegare il padre mafioso,
ndr)? Bernardo Provenzano è mio padre, e allora? Basta questo per essere considerato un cittadino di serie B?”. Anche Roberta, la figlia di Giovanni Bontate (il fratello del boss Stefano, uno dei grandi capi di Cosa nostra ucciso dai corleonesi nel 1981), ha imboccato altre strade. Anni fa destò scandalo la notizia della sua
partecipazione ad una associazione di volontariato che aveva ottenuto l’assegnazione di un bene confiscato alla mafia. “Giudicatemi per quello che sono, non per il cognome che porto”. Sua madre e suo padre vennero ammazzati nella guerra di mafia, il padre fu accusato di aver accumulato miliardi di lire con il traffico di droga. “Quei soldi non li volevo e li abbiamo dati in beneficenza. L’ho anche raccontato al procuratore nazionale antimafia Piero Grasso”, giurò Roberta Bontate. Figli che vogliono salvarsi. Figli che raccolgono lo scettro di comando del padre. Giovanni Riina era un predestinato. La leggenda di mafia narra che aveva solo cinque anni quando il padre Totò gli fece imbracciare un fucile. A vent’anni fu condannato all’ergastolo
accusato di aver partecipato a ben quattro omicidi. Suo fratello Giuseppe Salvatore, invece, fu condannato a 11 anni e otto mesi per una storia di appalti ed estorsioni. Ma ci sono anche figli che rinnegano il cognome del padre. Emanuele Brusca è il primo figlio del boss Bernardo e fratello di Giovanni Brusca, ‘u verru, il
maiale, l'uomo che azionò il telecomando di Capaci. Ha scontato una condanna per associazione mafiosa, ma dodici anni fa chiese di cambiare cognome. “È ingombrante per me e per i miei figli”. Un gesto
clamoroso, una rottura significativa che è anche il segno della crisi di una organizzazione come Cosa Nostra, che non vedremo mai nella mafia più potente: la 'ndrangheta. Qui nelle famiglie che dominano l’Aspromonte e la Piana di Gioia Tauro, la Tirrenica e la Jonica, le città e i paesi più sperduti, i legami familiari sono
fortissimi, il fondamento dell’organizzazione e della possibilità che il potere delle 'ndrine si tramandi di padre in figlio per generazioni. “Sono sempre gli stessi cognomi da un secolo”, scrisse un magistrato dell’antimafia calabrese anni fa. Ma basta sfogliare le relazioni che hanno portato allo scioglimento della Asl di Locri per capire che i figli dei boss si sono evoluti e sono entrati nell’economia legale. Molti nomi del gotha mafioso
ricorrono nelle intestazioni delle cliniche private e dei laboratori di analisi che da quella Asl prendevano accreditamenti e finanziamenti.
Fonte: il fatto quotidiano
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