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La democrazia del campar male






L’ altro giorno passeggiando sul lungomare di Finale Ligure
ho visto, seduta su una panchina, una vecchia che
sferruzzava. Non stava facendo un golfino per il nipotino, ma
dei piccoli sacchetti in lana leggera da appendere al collo e
dove infilare la patente, la carta di credito, le chiavi della
macchina, quelle di casa, gli spiccioli e insomma tutte quelle
cose che d'estate, in braghette e t-shirt, non sai dove mettere.
Li vendeva a pochi euro. La vecchia signora non è una clochard.
Vedova, con due figlie adulte, vive a Vercelli con una pensione
modestissima e in tarda primavera, d'estate e nei primi mesi
d'autunno, si sposta sulla Riviera per arrotondare le sue magre
entrate. Non però in luglio e agosto perché in piena stagione il
costo della stanza del modesto albergo dove alloggia (modesto
ma decoroso, son andato a dare un'occhiata) le rimangerebbe
tutto il magro guadagno. Ho pensato a Nicla Tarantini, la
moglie di Gianpi, quando dice, piangendo, ai pm di Napoli: “E
adesso senza quei soldi che ci dava il presidente come faremo a
c a m p a re ? ”. Alla signora non passa nemmeno per la testa che si
possa “c a m p a re ” lavorando. E al pm che le chiedeva come mai
avendo ricevuto dal “P re s i d e n t e ”, oltre ai 20 mila euro sborsati
mensilmente, un surplus di altri 20 mila per una vacanza a
Cortina, abbia sentito il bisogno di bussare ulteriormente a
quattrini da Berlusconi reclamandone ancora 5 mila, ha
risposto: “Siccome era la prima vacanza che facevamo dopo
tre anni, eravamo in quattro e volevo far fare una bella vacanza
alle mie bambine”. Penso a Nicla Tarantini e sento montare in
me una collera pericolosa. Vorrei prendere a sberle questa
impunita, raccontarle della vecchia signora di Finale, ricordarle
che 20 mila euro al netto sono lo stipendio annuale di un
impiegato o che i suoi coetanei se la sfangano nei call center a
mille euro. Non è una questione personale, naturalmente.
Perché la tipologia di Nicla e Gianpi Tarantini, gente che
“campa” nel lusso senza aver mai battuto un chiodo, è
vastissima. Per capirlo basta entrare in uno dei tanti locali
“t re n d y ” di Milano frequentati dal demimonde dello
spettacolo, da escort (ammesso che vi sia ancora una
differenza) e da una fauna maschile indefinibile, uomini di
quaranta e cinquant'anni che ricordano, nell'eleganza kitsch e
nel gestire, certi magliari degli anni Cinquanta. Dai tavoli senti
discorsi di questo tipo: “Domani sono a New York, poi faccio un
salto a Boston e prima di rientrare mi fermo una settimana in
Thailandia”. Se ti capita di parlare con uno di questi e, dopo un
po', gli chiedi che lavoro fa, le risposte sono vaghissime. Non è
un grande avvocato, non è un primario, non è un
architetto di grido. Si muove, vede gente. Ma che
mestiere faccia non si sa, anche se intuisci che
non deve essere molto diverso da quello degli
infiniti Tarantini, Lavitola, Bisignani
che popolano questo Paese. Ma la
questione è più ampia. Da quando
esiste la democrazia non ha fatto che
allargare il divario fra ricchi e poveri.
Un contadino dell'ancien régime era
più vicino al suo feudatario di quanto
lo sia oggi il cittadino comune a un
personaggio dello star-system. Non solo in
termini di ricchezza ma, paradossalmente,
anche di status (in fondo feudatario e
contadino, abitando sullo stesso pezzo di terra,
facevano, almeno in una certa misura, vita
comune). Ancora negli anni Cinquanta un alto
dirigente Fiat guadagnava 15 volte il suo operaio,
oggi un grande manager 400 volte. Un divario intollerabile,
osceno. C'è del marcio nel regno di Danimarca. C'è del
marcio nella democrazia. Un sistema, come ho scritto
brutalmente in Sudditi, “per metterlo nel culo alla gente, e
soprattutto alla povera gente, col suo consenso”.

Massimo Fini
Il fatto quotidiano

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