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Rivolte anche in Siria. Proteste e morti in tutto il paese


Ma la comunità internazionale è distratta dalla Libia. Le forze di sicurezza del governo siriano stanno reagendo con le armi alle proteste che si sono estese in tutta la Siria contro il regime della famiglia Assad, che governa il paese da quarant’anni. Secondo Amnesty International, i morti dell’ultima settimana sarebbero 55 soltanto a Daraa, circa 150 in tutto il paese. E cominciano ad arrivare le prime condanne da parte della comunità internazionale: prima gli Stati Uniti, assieme all’Onu, poi la Gran Bretagna. Intanto, in migliaia scendono in piazza a Daraa, la città all’estremo sud della Siria, vicino al confine con la Giordania, che è il centro della rivolta. Ma anche ad Hama, nel nord, a Tall, Latakia e nella capitale Damasco i manifestanti urlano slogan contro il regime, al grido di “Pace, Dio, Siria e libertà”, bruciano i ritratti del presidente e chiedono con rabbia un governo più giusto. Il presidente siriano, Bashar Assad, invita alla calma i manifestanti e promette riforme democratiche, ma lascia che le forze dell'ordine sparino sulla folla per reprimere la ribellione. L’ultimo episodio venerdì, a Daraa, quando il funerale di 25 persone che hanno perso la vita nei giorni scorsi è diventato il pretesto per una manifestazione contro il governo. I manifestanti hanno proclamato il “giorno della dignità”, facendo appello a tutti i siriani affinché scendessero in piazza. In tremila hanno marciato verso il centro della città, appiccando fuochi per le strade e buttando giù una statua del passato presidente Hafez Assad, padre di Bashar. Le forze di sicurezza hanno risposto sparando con fucili automatici sulla folla, dall’alto dei palazzi della piazza centrale. E nel villaggio di Salamen, nell’area sud di Daraa, la polizia ha aperto il fuoco contro un gruppo di persone che cercava di raggiungere il centro. Il governo ha confermato la morte di 10 persone, ma secondo alcuni testimoni potrebbero essere più del doppio ad aver perso la vita. Le rivolte sono proseguite per tutto il weekend, con maggiore forza: palazzi pubblici e sedi di partito sono stati dati alle fiamme, ci sono stati scontri tra manifestanti e sostenitori del regime, e i cecchini hanno sparato di nuovo. Le proteste sono iniziate una settimana fa, in seguito all’arresto di alcuni liceali che stavano dipingendo graffiti antigovernativi a Daraa. La gente è scesa in piazza e le forze dell’ordine hanno usato le maniere forti per far rispettare il divieto di assembramenti pubblici previsto dalla legge marziale, che in Siria è in vigore dal 1963. Il movimento si è propagato anche grazie alla rete. Su Facebook, la pagina della ‘Siryan Revolution 2011’ conta 86.000 fan e punta ad essere il riferimento per i protestanti che scendono nelle strade. Protestano contro il regime autoritario del partito Baath, gestito dalla famiglia Assad, da due generazioni al potere, e dal gruppo religioso di minoranza sciita degli alauiti - mentre la maggioranza della popolazione è sunnita. Proprio quando sembrava che la Siria potesse spezzare il suo tradizionale lungo isolamento – vedi la recente reintroduzione dell’ambasciata americana a Damasco e gli spiragli di apertura con l’occidente per quanto riguarda l’Iran e il Libano – Assad è costretto a placare le rivolte che vengono dall’interno. E sembrano tardive le promesse di maggior salario, maggior libertà di informazione (in particolar modo per quanto riguarda internet) e maggior potere ai partiti di opposizione. Nel frattempo, cominciano ad arrivare le condanne della comunità internazionale, inevitabilmente distratta dagli avvenimenti libici. Gli Stati uniti, attraverso il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, hanno manifestato la “dura condanna dei tentativi del governo siriano di reprimere e intimidire i manifestanti”. Il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-Moon ha invece fatto sapere di aver telefonato direttamente ad Assad per chiedergli di fermare le rappresaglie.


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