Come è bello vivere a Roma e avere difficoltà a ricevere i servizi minimi! Leggete questo articolo scritto dalla giornalista del fatto quotidiano Silvia D'Onghia
Roma, calda e soleggiata giornata di metà dicembre. Sono alle prese con un cambio di abitazione, e quindi con l’interminabile sequenza di recessioni/attivazioni contratti. Se in alcune cittadine del nord tutto è automatizzato (basta andare in Comune), nella evoluta capitale devi armarti di santa pazienza e perdere intere giornate di lavoro.
Naturalmente, prima di varcare la soglia dell’Acea, che fornisce i servizi energetici e idrici, provo a chiamare decine di volte il numero verde (dopo essermi sapientemente districata nel sito). Tutto inutile. Gli operai che stanno lavorando nella casa nuova hanno bisogno dell’elettricità, per cui prendo il coraggio a due mani ed entro nel palazzone di piazzale Ostiense. Una bolgia infernale è più accogliente. All’ingresso, trovo già due lunghissime file, in apparenza indistinguibili. Chiedo a una cliente in attesa, che a giudicare dagli occhi è lì almeno da due ore: “Scusi, ma dove si prende il numeretto per gli sportelli?”. La risposta: “Deve mettersi in fila per le informazioni”. Ebbene sì, le prime due file servono solo ad avere informazioni e, se ti va bene, un numeretto.
Faccio la fila, giocandomi a testa o croce quella di destra. Dopo circa una ventina di minuti arrivo allo sportello informazioni, dove trovo eleganti signorine ad attendermi (due insieme, come nelle barzellette dei carabinieri): “Mi scusi, dovrei attivare un’utenza”. “Voltura o subentro?”. “Subentro” (nel frattempo ho studiato). “E il vecchio inquilino era un nostro cliente?”. Le mie certezze cominciano a vacillare. Rispondo: “Mi scusi, ma io cosa ne so?”. La signorina mi guarda come se fossi scema e, per aiutarmi, mi dice: “Faccia così. Le do due numeri, uno per il mercato protetto, l’altro per il mercato libero. Gli sportelli sono diversi, vada al primo che si libera e provi a capire”. Mi faccio il segno della croce, da atea.
Mi siedo, apro il primo giornale, aspetto. Per il mercato protetto ho “solo” un’ottantina di persone davanti a me. Per quello libero ho il numero 86, gli sportelli (due in tutto) sono al 69: ho buone speranze. Prego che l’inquilino precedente abbia avuto un contratto con chiunque altro. Tempo d’attesa: tre quarti d’ora. Numero 86. Mi precipito allo sportello, dove trovo un’altra gentile signorina. Tempo di permanenza: 60 secondi scarsi. L’inquilino precedente era uno sfigato come me e la signorina non può fare il subentro.
Torno a sedere e prendo il secondo giornale. Nel frattempo butto un occhio e un orecchio alla fauna umana che mi circonda. Sono quasi tutte persone anziane, alcune da sole, altre in coppia. Una signora sulla settantina sta raccontando alla vicina di sedia che è la seconda mattina che viene qui: l’altra volta l’hanno rimandata a casa perché mancava chissà quale documento. Un signore, invece, sta invidiando quei pochi fortunati che, anzi che allo sportello, vengono indirizzati al telefono. Sì, perché Acea mette a disposizione dei clienti (quelli che vanno lì) una linea telefonica per richiedere i contratti. Sono le signorine delle informazioni a decidere chi saranno i fortunati.
Nel frattempo i numeri procedono a rilento e gli sportelli funzionanti sono soltanto cinque per non so quante decine di persone. Dall’altra parte dello stanzone la stessa sorte tocca ai clienti “acqua”. Qui dentro c’è un sovraffollamento che neanche in carcere. Qualcuno protesta ad alta voce: davanti a noi tre giovani donne, ben vestite e ben truccate, hanno monopolizzato l’attenzione di un impiegato senza aver preso il numero, anzi, accompagnate direttamente da qualcuno dei piani alti. Inizio a perdere la pazienza, per un attimo penso che potrei chiamare l’ufficio stampa e farmi aiutare, ma per fortuna il mio senso civico resiste alle tentazioni.
Leggo il terzo quotidiano. L’orologio scorre velocemente, i numeri no. Si fa l’ora di pranzo e, come per magia, davanti a noi poveri sfigati cittadini, tre sportelli su cinque chiudono le tendine. A questo punto mi incazzo davvero e decido di fare una delle scenate che di solito fa mia madre. Mi alzo, torno allo sportello informazioni (che nel frattempo è semideserto), con garbo – ma non troppo – mi rivolgo a una delle gentili signorine: “Mi scusi, posso sapere perché gli sportelli stanno chiudendo?”. “Quali sportelli?”. Perdo anche il poco garbo che mi è rimasto: “Mi prende in giro? Tre sportelli del mercato protetto hanno appena chiuso, ne sono rimasti aperti solo due”. Risposta: “Pausa pranzo”. Non so se urlare o mettermi a ridere. Allora minaccio: “Senta, sono una giornalista del Fatto. Posso sapere se c’è qualcuno ai piani alti con cui posso parlare prima di scrivere male di Acea?”. La signorina – che intanto sta mangiando – non fa una piega: “Non ne ho idea, non sono dipendente Acea, noi siamo di un’altra azienda”.
Sembra un film dell’orrore. Mi sento impotente: se anche la minaccia dello sputtanamento a mezzo stampa non serve, non mi resta che tornare a sedere. Non ho più giornali da leggere. E’ la fine. Rischio seriamente di addormentarmi quando lo sportello chiama il mio numero. Miracolo. Vado lì, comunico la matricola del contatore e l’ultima lettura. Tutto procede velocemente, fino a quando l’impiegato si alza e se ne va. E mi lascia sola, di nuovo, in quell’inferno. Lo vedo che traffica sul retro, va da una collega, aspetta il suo turno. Dopo cinque minuti torna e mi dice: “Scusi, sa, ma io da questo computer non posso stampare”. Se non avesse avuto una faccia simpatica, avrei seriamente meditato l’omicidio.
Silvia D'Onghia
Fonte: Il Fatto Quotidiano
Roma, calda e soleggiata giornata di metà dicembre. Sono alle prese con un cambio di abitazione, e quindi con l’interminabile sequenza di recessioni/attivazioni contratti. Se in alcune cittadine del nord tutto è automatizzato (basta andare in Comune), nella evoluta capitale devi armarti di santa pazienza e perdere intere giornate di lavoro.
Naturalmente, prima di varcare la soglia dell’Acea, che fornisce i servizi energetici e idrici, provo a chiamare decine di volte il numero verde (dopo essermi sapientemente districata nel sito). Tutto inutile. Gli operai che stanno lavorando nella casa nuova hanno bisogno dell’elettricità, per cui prendo il coraggio a due mani ed entro nel palazzone di piazzale Ostiense. Una bolgia infernale è più accogliente. All’ingresso, trovo già due lunghissime file, in apparenza indistinguibili. Chiedo a una cliente in attesa, che a giudicare dagli occhi è lì almeno da due ore: “Scusi, ma dove si prende il numeretto per gli sportelli?”. La risposta: “Deve mettersi in fila per le informazioni”. Ebbene sì, le prime due file servono solo ad avere informazioni e, se ti va bene, un numeretto.
Faccio la fila, giocandomi a testa o croce quella di destra. Dopo circa una ventina di minuti arrivo allo sportello informazioni, dove trovo eleganti signorine ad attendermi (due insieme, come nelle barzellette dei carabinieri): “Mi scusi, dovrei attivare un’utenza”. “Voltura o subentro?”. “Subentro” (nel frattempo ho studiato). “E il vecchio inquilino era un nostro cliente?”. Le mie certezze cominciano a vacillare. Rispondo: “Mi scusi, ma io cosa ne so?”. La signorina mi guarda come se fossi scema e, per aiutarmi, mi dice: “Faccia così. Le do due numeri, uno per il mercato protetto, l’altro per il mercato libero. Gli sportelli sono diversi, vada al primo che si libera e provi a capire”. Mi faccio il segno della croce, da atea.
Mi siedo, apro il primo giornale, aspetto. Per il mercato protetto ho “solo” un’ottantina di persone davanti a me. Per quello libero ho il numero 86, gli sportelli (due in tutto) sono al 69: ho buone speranze. Prego che l’inquilino precedente abbia avuto un contratto con chiunque altro. Tempo d’attesa: tre quarti d’ora. Numero 86. Mi precipito allo sportello, dove trovo un’altra gentile signorina. Tempo di permanenza: 60 secondi scarsi. L’inquilino precedente era uno sfigato come me e la signorina non può fare il subentro.
Torno a sedere e prendo il secondo giornale. Nel frattempo butto un occhio e un orecchio alla fauna umana che mi circonda. Sono quasi tutte persone anziane, alcune da sole, altre in coppia. Una signora sulla settantina sta raccontando alla vicina di sedia che è la seconda mattina che viene qui: l’altra volta l’hanno rimandata a casa perché mancava chissà quale documento. Un signore, invece, sta invidiando quei pochi fortunati che, anzi che allo sportello, vengono indirizzati al telefono. Sì, perché Acea mette a disposizione dei clienti (quelli che vanno lì) una linea telefonica per richiedere i contratti. Sono le signorine delle informazioni a decidere chi saranno i fortunati.
Nel frattempo i numeri procedono a rilento e gli sportelli funzionanti sono soltanto cinque per non so quante decine di persone. Dall’altra parte dello stanzone la stessa sorte tocca ai clienti “acqua”. Qui dentro c’è un sovraffollamento che neanche in carcere. Qualcuno protesta ad alta voce: davanti a noi tre giovani donne, ben vestite e ben truccate, hanno monopolizzato l’attenzione di un impiegato senza aver preso il numero, anzi, accompagnate direttamente da qualcuno dei piani alti. Inizio a perdere la pazienza, per un attimo penso che potrei chiamare l’ufficio stampa e farmi aiutare, ma per fortuna il mio senso civico resiste alle tentazioni.
Leggo il terzo quotidiano. L’orologio scorre velocemente, i numeri no. Si fa l’ora di pranzo e, come per magia, davanti a noi poveri sfigati cittadini, tre sportelli su cinque chiudono le tendine. A questo punto mi incazzo davvero e decido di fare una delle scenate che di solito fa mia madre. Mi alzo, torno allo sportello informazioni (che nel frattempo è semideserto), con garbo – ma non troppo – mi rivolgo a una delle gentili signorine: “Mi scusi, posso sapere perché gli sportelli stanno chiudendo?”. “Quali sportelli?”. Perdo anche il poco garbo che mi è rimasto: “Mi prende in giro? Tre sportelli del mercato protetto hanno appena chiuso, ne sono rimasti aperti solo due”. Risposta: “Pausa pranzo”. Non so se urlare o mettermi a ridere. Allora minaccio: “Senta, sono una giornalista del Fatto. Posso sapere se c’è qualcuno ai piani alti con cui posso parlare prima di scrivere male di Acea?”. La signorina – che intanto sta mangiando – non fa una piega: “Non ne ho idea, non sono dipendente Acea, noi siamo di un’altra azienda”.
Sembra un film dell’orrore. Mi sento impotente: se anche la minaccia dello sputtanamento a mezzo stampa non serve, non mi resta che tornare a sedere. Non ho più giornali da leggere. E’ la fine. Rischio seriamente di addormentarmi quando lo sportello chiama il mio numero. Miracolo. Vado lì, comunico la matricola del contatore e l’ultima lettura. Tutto procede velocemente, fino a quando l’impiegato si alza e se ne va. E mi lascia sola, di nuovo, in quell’inferno. Lo vedo che traffica sul retro, va da una collega, aspetta il suo turno. Dopo cinque minuti torna e mi dice: “Scusi, sa, ma io da questo computer non posso stampare”. Se non avesse avuto una faccia simpatica, avrei seriamente meditato l’omicidio.
Silvia D'Onghia
Fonte: Il Fatto Quotidiano
Commenti
Posta un commento